Mai arrendersi. Questa è la lezione della montagna
«Mai arrendersi. Questa è la lezione della montagna»
Clara Castoldi
Nicola Ciaffoni usa le parole come picozze, ramponi e corde. Ci porta sul tetto del mondo. Là dove tanti alpinisti hanno lasciato la vita mentre inseguivano il proprio sogno e dove oggi restano – le loro anime – come guardiani della montagna. Il pubblico è seduto in piazzetta Salis a Tirano, per l’apertura del Teatro Festival Valtellina, ma – complice il fresco dopo la pioggia – ha l’impressione di far parte di quella cordata. La sfida non è quella di salire sui giganti della terra ad ogni costo, perché non è questo il senso dell’alpinismo, ma di un’ascesa più interiore alla conquista del senso di libertà passo dopo passo, affrontando con la testa e il corpo tutte le paure che alla montagna tocca tirar fuori da ciascuno.
Un pericoloso cammino per capire se stessi innanzitutto, prima che per arrivare in vetta.
Tutti attentissimi
Nicola Ciaffoni ne “I guardiani
del Nanga” propone questa riflessione nella sua pulita e coinvolgente interpretazione su un bel testo di Gioia Battista e la regia di Stefano Scherini. Non serve un imponente apparato di luci o audio per comporre lo spettacolo, perché tutta l’attenzione è per Ciaffoni – emozionato per il suo primo spettacolo davanti ad un pubblico vero dopo «mesi di clausura», come svela al termine del monologo – che sa trasportarci in un racconto serio e documentato, dove pure non mancano istanti di leggerezza.
Sette storie di sette spedizioni alpinistiche sul Nanga Parbat vengono narrate.
Dal primo tentativo di scalata, nel 1895, dell’inglese Albert Frederick Mummery, con «mezzi leali», solo ramponi e picozza, senza bombole, a Willy Merkl e alle spedizioni tedesche finanziate dal governo nazista, all’ascesa dei fratelli Messner, che si è portata dietro oltre trent’anni di polemiche per la scomparsa prematura di Gunther. Dal primo alpinista venezuelano José Antonio Delgado (che lascia un messaggio «la cosa migliore da fare con la morte è approfittare della vita») all’altoatesino Karl Unterkircher.
Fino ad arrivare ai nostri giorni, con il polacco Tomek Mackiewicz, convinto di parlare con lo “spirito” della montagna, all’italiano Daniele Nardi, il “Romoletto” come l’avevano ribattezzato, il ragazzo dell’Appennino che la montagna l’aveva dentro.
Sette uomini che, sul Nanga, hanno lasciato la vita e, che scenograficamente, vengono rappresentati da sette oggetti di scena (casco, corda, scarpone ecc.) tolti dalla tenda-Nanga e posati ai suoi piedi.
Cadaveri e bombole sull’Everest
In mezzo ci sono le riflessioni sul senso della vita e del limite; frecciate contro l’industria del turismo sull’Everest che lascia bombole esauste e cadaveri quasi come segnaletica; critiche alle operazioni di salvataggio costose e spesso impossibili già in partenza. Ma anche poetiche descrizioni di una montagna che «parla», «scrolla le spalle e con un colpo di tosse porta via tutto», del suo rumore, quello del vento che soffia sempre e del ghiaccio che si muove, del freddo «che diventa un’abitudine». Il tutto in un dialogo fra un alpinista e il suo sherpa Pemba (sagace macchietta che la sa lunga). Fino al finale che rappresenta un monito per tutti, secondo le parole di Nardi.
«Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che però non si è arreso e, se non dovessi tornare, il messaggio che arriva a mio figlio sia questo: non fermarti, non arrenderti, datti da fare perché il mondo ha bisogno di persone migliori che facciano sì che la pace sia una realtà e non soltanto un’idea. Vale la pena farlo».
Un messaggio che ha emozionato il pubblico.
Clara Castoldi
FONTE: La Provincia di Sondrio
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